Oltre cento donne ammazzate dall’inizio del 2016. Si parte da qui, da questo irreversibile dato per arrivare a Roma con decine di pullman e un migliaio di adesioni da tutta Italia di singole e gruppi, oltre 1200 iscritte a otto tavoli in assemblea: le femministe daranno certamente i numeri il prossimo 26 e 27 novembre. Anche, e soprattutto, a fronte di quelli che non tornano nella nostra società.
Se non fosse ancora chiaro, il costo sociale della violenza maschile vale quanto una finanziaria ed è curioso vedere nella graduatoria uscita sul sito delle Pari Opportunità che parte sostanziosa dei finanziamenti, anziché andare ai centri antiviolenza sempre più in difficoltà o a quelli costretti a chiudere, sono stati redistribuiti fra enti locali e associazionismo non laico. Motivo in più per cui i movimenti che, a partire dalla rete IoDecido, Udi e Dire, si sono riuniti attorno alla sigla NonUnaDiMeno hanno fra gli obiettivi principali quello di iniziare a scrivere, dal basso e in maniera democratica e trasparente, un piano antiviolenza nazionale femminista. Evidentemente alle istituzioni non è chiara la posta in gioco o si cerca di far rientrare dalla finestra quelle politiche familiste di stampo confessionale che invece le pratiche femministe hanno messo alla porta, denunciando da sempre la trasversalità della violenza maschile: non ci sono etnie, classi o parrocchie che tengano.
Lo esplicita bene Tatiana Montella, avvocata 36enne, del collettivo romano Degender Communia della rete Io Decido quando afferma: «Non siamo disposte a perdere nessun’altra donna per la violenza di un uomo o per l’obiezione di coscienza o per qualsiasi altra forma di violenza» ed è forse per questo che il percorso nazionale che si è messo in moto «ha avuto la capacità di mettere insieme diversi femminismi ed una variegata composizione sociale che a partire dal tema della violenza sulle donne ha colto una sfida complessa ma insieme molto significativa. In questi mesi in tantissime città e paesi di Italia, si sono organizzate assemblee, momenti di confronti, di scambio, di costruzione e di riflessione. In molti luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, ci sono stati percorsi di autorganizzazione a partire dalla riflessione delle proprie specifiche condizioni di vita».
Perché è dalle condizioni materiali della vita delle donne che forse val la pena partire: «In Italia le lavoratrici percepiscono, mediamente, 3.620 euro lordi l’anno in meno dei lavoratori. La differenza percentuale dei salari è dunque del 10,9% – spiegano le coordinatrici del tavolo di discussione su welfare e lavoro – Differenza che cresce enormemente con il livello d’istruzione: lavoratrici laureate percepiscono un salario minore del 36,3%. Secondo una ricerca Istat di qualche anno fa, sono 1 milione 224mila le donne tra i 15 e i 65 anni che hanno subito molestie o ricatti sessuali nell’arco della loro vita lavorativa». Senza parlare del fatto che trovare lavoro in Italia è a sua volta una scommessa: Isotta, 32 anni, dopo aver vissuto e lavorato all’estero per diversi anni, ha deciso di rientrare in Italia «consapevole che non avrei avuto la stessa facilità a trovare lavoro» – racconta –. Ma ad un certo punto mi sono stancata di dover stare all’estero non per scelta ma per necessità e sono rientrata, consapevole del delirio che avrei ritrovato».
Fa parte di Una stanza tutta per sé, che organizza «attività rivolte alla sensibilizzazione in merito alla salute sessuale e riproduttiva, alla disparità tra i generi e alla possibilità di reinventare i rapporti e le relazioni. Realizziamo – spiega – laboratori rivolti agli studenti e alle studentesse della scuola primaria e secondaria di primo grado sul tema dell’educazione all’affettività e alle differenze». Anche lei, come tante altre attiviste che saranno a Roma, sottolinea la «volontà di tante realtà differenti (mondo dell’educazione, cultura, salute, giuriste, comunicazione, lavoro) di condividere i propri percorsi e portare un contributo in questa due giorni di mobilitazione. È giunto il momento di essere unite ed ambiziose e di mettere insieme tutte le nostre intelligenze e competenze».
Quale miglior risposta ai tentativi che ci sono stati in queste settimane di strumentalizzare un percorso che – da subito – non ha nascosto diversità e conflitti ma ha al tempo stesso ha chiarito che l’invito era rivolto a tutt* coloro che si riconoscono nei principi dell’antisessismo, antirazzismo e antifascismo. Oltre a ribadire la propria autonomia da bandiere di partito, istituzioni o sindacati, le femministe hanno prodotto saperi che sono sfuggiti a chi ha cercato di distogliere l’attenzione dai contenuti con bizzarre polemiche sulla presenza maschile in corteo. Anche se per alcune è difficile farsene una ragione, i tempi son mutati e come racconta Elisa Coco, 39enne catanese che vive a Bologna, ci sarà «anche uno spezzone transfemminista queer lanciato dal Sommovimento Nazionale, dove porteremo le nostre pratiche, dallo Sfertility alla corale, nate all’interno della Favolosa Coalizione, rete nata a Bologna circa due anni fa per contrastare, con pratiche di piazza creative e comunicative, le manifestazioni di Sentinelle in piedi e no194 nella nostra città. Si tratta di una esperienza fluida e mobile, in cui convivono realtà collettive molto diverse tra loro, come il Cassero, il laboratorio Smaschieramenti, l’associazione Orlando, il mio gruppo Comunicattive, ma attraversata anche da tante singole e singoli».
Esperienza feconda dove ci sono uomini e donne che non vogliono essere etichettati per la loro identità o orientamente sessuale intrecciando nelle loro pratiche anche le istanze del manifesto che verrà lanciato da Trama di Terre sul “femminismo migrante”, che non vuole essere una «definizione identitaria ma un percorso di ridefinizione continua e di riconoscimento reciproco. Perché le declinazioni della violenza maschile nelle vite delle donne migranti vanno dalla sottrazione dei documenti alla privazione delle libertà, ai matrimoni forzati, fino ai delitti d’onore». È anche per questo che Trama di Terre il 25 novembre chiuderà il suo centro antiviolenza in forma di protesta, così come la Casa delle donne di Modena, il centro Thamaia di Catania, lo sportello romano Una stanza tutta per sè e l’Erinna di Viterbo.
Viste tutte le adesioni arrivate a NonUnaDiMeno dai movimenti europei che hanno scioperato nelle scorse settimane, forse si poteva osare e chiudere tutti i centri antiviolenza? In Italia non sono forse ancora maturi i tempi per uno sciopero delle donne. Peccato, perché come suggerisce Coco «avremmo bisogno di radicalità politica femminista, intrecciata con favolosità tattica, per contrastare le politiche governative e un sistema intero che è strutturato su presupposti di disparità di potere tra i generi, violenza di genere e del genere». Del resto, come sottolinea Vittoria Tola dell’Udi “non vogliamo più che le istituzioni facciano opera di sensibilizzazione contro la violenza, ma politiche adeguate. Noi le proposte le abbiamo”. Tutto sta ad ascoltarle fino in fondo e davvero.
24 Novembre 2016 – Barbara Bonomi Romagnoli